prima pagina pagina precedente


RICORDI
Fatti, emozioni, atmosfere
Vincenzo Bonvicini sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


Esercitazioni UNPA


8 SETTEMBRE '43

    Avevo sei anni. Abitavamo a Padova. Di fronte alla nostra casa, sul lato opposto della strada, c'era una caserma della contraerea. Nella mattinata del 9 settembre si seppe che la maggior parte dei soldati era fuggita nella notte passando dal giardino delle suore confinante con la caserma. All'imbrunire di quel giorno, dopo cena, assieme ad altri bambini e a mia sorella ci eravamo seduti, ad attendere il buio, come tutte le sere di quella estate, sui gradini di una casa poco lontana dalla nostra.
    All'improvviso sentimmo giungere dalla piazzetta in fondo alla strada un frastuono via via crescente che sembrava di motori di camion; si udivano anche voci concitate e grida. Mia sorella, che frequentando le Medie aveva imparato a conoscere il tedesco, colse le voci e, intuendo la situazione, ci gridò: "I tedeschi! I tedeschi! Scappiamo!”. Ci precipitammo a casa, attaccandoci al campanello; stavamo entrando quando due moto sbucarono dalla curva della piazza a grande velocità, seguite da alcune camionette. I tedeschi arrivarono davanti alla caserma, fermandosi proprio sotto le nostre finestre, e si precipitarono di corsa all'interno cogliendo di sorpresa i soldati rimasti, per lo più ufficiali.
    Attraverso le fessure delle persiane - abitavamo a piano terra - osservavamo con angoscia la scena che si svolgeva sotto i nostri occhi: i nostri ufficiali uscivano uno ad uno tenuti per le braccia e venivano fatti salire, con modi violenti, su camion nel frattempo sopraggiunti.
    Quando i miei videro uscire in quel modo il Capitano C., conoscente di famiglia per via di cordiali frequentazioni, la mamma disse a papà: Dobbiamo fare qualcosa”, andò alla porta e uscì sul marciapiede. Approfittando della sua conoscenza del tedesco - era nata e vissuta fino a vent'anni nel Trentino austro-ungarico - si mise a chiacchierare con alcuni soldati tedeschi che, armi in pugno, sorvegliavano la salita sui camion; rotto il ghiaccio, chiese di poter salutare il Capitano C.
    Forse favorevolmente disposti per averla sentita parlare la loro lingua, le consentirono di avvicinarsi a lui; nella grande concitazione del momento e nel continuo viavai le riuscì di afferrare per un braccio il capitano, strattonandolo verso la nostra porta, dove stava mio padre che lo si mise dentro casa. Osservammo col cuore in gola la scena attraverso le fessure e mia sorella si disperava mormorando in continuazione: Mamma cosa fai, ci ammazzano tutti!”
    Una volta nell'atrio di casa il Capitano C. costernato ripeteva continui ringraziamenti e poi disse a mio padre: "Li portano tutti in Germania, forse riuscite a salvare anche il Tenente N. E quando il Tenente uscì dalla caserma avviandosi verso il camion, papà fece cenno alla mamma, che era rimasta sulla strada e, cogliendo un momento di disattenzione, felicemente ripeterono l'operazione.
    I tedeschi non si resero conto di quanto era avvenuto; i miei sprangarono la porta e ci trovammo a passare la notte con i due "ospiti" nascosti in cantina e i tedeschi che pattugliavano la strada.
    Dopo qualche giorno i due ufficiali, entrambi veneti, riuscirono ad allontanarsi da Padova, prima uno poi l'altro, in abiti civili, aiutati dai loro parenti che, avvertiti tramite conoscenze, arrivarono con delle biciclette.

ESTATE '44

    Ci trovavamo sfollati presso parenti nella campagna veronese, causa i bombardamenti che per mesi avevano perseguitato Padova rendendola pressoché invivibile.
Amo ricordare l'atmosfera magica di quella estate. Furono mesi di libertà totale. Si stava in giro dalla mattina alla sera scorazzando per i campi, salendo sui gelsi a mangiar more, rubacchiando "angurie" e meloni, facendo il bagno nudi nei ruscelli, cosa che faceva inorridire mia madre.
    Quando passavano le squadriglie di fortezze volanti ci mettevamo a contarle e i più grandi sentenziavano: "Sono dirette a Verona, a Venezia, a Milano..."
    Dopo cena ci appostavamo al buio ad aspettare "Pippo", il ricognitore che immancabilmente attraversava il cielo notturno col suo inconfondibile rumore, ancor oggi vivo.
    Estate di guerra, paradossalmente felice e perciò mitica agli occhi di un bambino che arrivava dalla città e dall'angoscia delle bombe.

25 APRILE '45

    Il paese della bassa pianura veronese nel quale ci eravamo sistemati sta a pochi chilometri dal Po.
    Nei giorni precedenti il 25 aprile le truppe anglo-americane, nella loro avanzata da Sud, erano arrivate al fiume. I tedeschi, dopo aver fatto saltare tutti i ponti, tentarono sul Po l'ultima disperata difesa.
    La guerra era dunque giunta a poca distanza e ci coinvolgeva ancor più. Il cannoneggiamento alleato iniziò massiccio e incessante il giorno 23. Le granate arrivavano fino al paese ed anche oltre, passandoci sopra la testa sibilando.
    Trascorremmo la notte fuori del paese in una casa di campagna di conoscenti. Gli uomini foderarono le pareti di un locale, adiacente alla stalla, con botole di paglia per renderlo più sicuro, almeno dalle schegge. Mi prende ancora una struggente emozione il ricordo di quella notte, con la testa appoggiata al grembo di mia madre tra il        sibilo continuo delle granate e la recita del rosario che il nonno di quella casa conduceva con voce imponente, senza sosta. Noi bambini di tanto in tanto ci addormentavamo, per poi ridestarci di soprassalto al boato di qualche bomba caduta vicino.
    L'indomani mattina si seppe che l'autorità aveva disposto il ricovero di tutta la popolazione nei sotterranei del Castello scaligero che sta al centro del paese. Tale sistemazione dava maggior sicurezza e i miei genitori decisero di trasferirci colà. Percorremmo il tragitto lungo sentieri dl campagna sotto il fischio delle granate. Mio padre - che aveva fatto la Grande guerra sul Carso - ci rassicurava ripetendo ad ogni sibilo: "Niente paura, se fischiano vuol dire che ci passano sopra la testa e cadono lontano".
    La giornata e la notte successiva la vivemmo in quei sotterranei, accampati sulla paglia nella promiscuità di centinaia di persone, tra pianti, preghiere, imprecazioni.
    All'alba del giorno dopo -era il 25 aprile! - arrivarono le prime notizie: “E' finita! E' finita! I tedeschi si ritirano", si sentiva ripetere. In effetti da qualche ora non si sentiva più il cannoneggiamento. La gente cominciò ad uscire esultante, abbracciandosi, piangendo, gridano ognuno la propria gioia, che era la gioia di tutti.
    Gruppi di partigiani, attestati da settimane nei canneti delle valli da pesca, contribuirono ad accelerare la rotta cogliendo i tedeschi sui fianchi ed entrarono in paese prendendone possesso.
    Si seppe di azioni vili e brutali commesse dai tedeschi in fuga. In particolare ricordo di due di loro che, essendo su una sola bicicletta, si fermarono ad una casa isolata e pretesero, pistola in pugno, di averne un'altra. Il padre di famiglia che rispose di non averla - come in effetti era - fu ucciso all'istante sull'aia davanti alla moglie e ai due bambini.
    La gente iniziò l'assalto ai magazzini e depositi abbandonati dove c'era molta roba; ricordo mucchi di patate, che in poco tempo sparirono, ricordo pneumatici, coperte, divise militari. Mi diedi anch'io alla caccia di qualcosa ma, spintonato dai più grandi, mi rimasero in mano soltanto due libri in lingua tedesca. Li portai a casa trionfante: era il mio piccolo bottino. Si trattava di opere di Goethe e Schiller, del tutto inservibili data la stampa in caratteri gotici.
"Avresti fatto meglio a portare un po' di patate" disse, con senso pratico, mia madre. E così il bottino di guerra di un bambino fini, inutile e dimenticato, in soffitta.

Vincenzo Bonvicini


in su pagina precedente

 7 febbraio 2004